28 novembre 2008

Nel silenzio generale, Berlusconi privatizza l'acqua

Alessio Marri - Megachip, 26/11/2008
“Ferma restando la proprietà pubblica delle reti (idriche ndr), la loro gestione può essere affidata a soggetti privati”. È il 6 agosto 2008, il governo Berlusconi, approvando la legge di conversione n°133 “recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, sancisce di fatto la privatizzazione dell'acqua pubblica. O meglio ancora, introduce la possibilità per gli enti privati, che ne assumeranno l'incarico, di gestire e controllare beni primari di servizio pubblico. L'acqua su tutte.
Cambiano le parole, si nascondono i significati, ma la sostanza non cambia: l'acqua in Italia è stata privatizzata. Da diritto acquisito diventa merce, prodotto commerciale soggetto alle regole del mercato. Lo stesso sistema che solo nell'ultimo anno si è dimostrato pronto a implodere su sé stesso, con fallimenti a catena di banche e assicurazioni.
Il decreto legge n°133, voluto fortemente dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti, parla chiaro: si interviene “al fine di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni”.
Eppure, dopo un rapido sguardo alle esperienze cosiddette “pilota” della provincia di Latina, sorgono non pochi dubbi proprio sulle garanzie di accesso al servizio.
In città come Aprilia, comune che ha sposato il progetto di privatizzazione dell'acqua già da diversi anni, si è assistito a un processo rapido e febbrile di innalzamento vertiginoso dei costi delle tariffe (+ 300%).
E non solo.
Si è instaurata infatti una nuova procedura per tutti coloro che, per necessità o per scelta, non possono permettersi i costi aggiuntivi imposti da AcquaLatina, società ormai sotto il controllo della multinazionale Veolia, che ne possiede il 46,5% delle azioni. Esattamente come nel terzo mondo, vigilantes e forze dell'ordine sono assoldati per rimuovere contatori e bloccare rubinetti. Ma non basta. Nel territorio pontino, oltre agli aumenti sconsiderati delle bollette, si è registrato un drammatico scadimento della qualità dell'acqua: nel 2005, ad esempio, a Cisterna sono stati riscontrati tassi di arsenico pari a 200 microgrammi per litro, oltre il 70% del volume idrico disperso o non giunto a fatturazione.
Nella storia recente un caso limite sul fronte della privatizzazione dell'acqua è avvenuto in Bolivia nei primi anni del nuovo millennio. A seguito dei debiti contratti dai prestiti-killer della Banca Mondiale per lo Sviluppo, il governo boliviano fu costretto a svendere nelle mani di corporation americane le risorse petrolifere, la compagnia aerea di bandiera, le ferrovie e la gestione dell'energia elettrica. Le risorse idriche vennero date in concessione alla Bechtel Corporation di San Francisco. Il contratto prevedeva la proibizione di far propria l'acqua piovana, anch'essa per assurdo era divenuta proprietà e patrimonio della multinazionale californiana. Per i debitori era persino contemplata la confisca dell'abitazione. Nell'aprile del 2000 la popolazione locale sfiancata dall'impossibilità di sopportare le nuove tariffe imposte, si ribellò. Nonostante una repressione violentissima che costò la vita a sei persone, tra cui due bambini, e centinaia di feriti provocati dal governo schierato a difesa degli interessi della corporation, l'esercito e la polizia rientrarono nelle caserme e il popolo boliviano riuscì a riprendere il controllo dell'acqua.
In Italia è solo questione di tempo. Nei giorni scorsi, tra l'indifferenza generalizzata dei media italiani, un secondo forum dei movimenti dell'acqua è stato organizzato per ridare vigore alla battaglia di questo fondamentale bene comune.
Nel 2006 più di quattrocento mila firme furono raccolte a sostegno della legge d'iniziativa popolare che vede come primo punto il riconoscimento dell'acqua come “diritto inalienabile ed inviolabile della persona”. Ma la sensazione forte è che la straordinaria raccolta firme sia già stata oscurata. Con un semplice colpo di spugna. Seguendo il manuale del “buon governo” che approva leggi impopolari e antidemocratiche proprio quando imperversa l'afa estiva e l'attenzione della stampa è rivolta altrove.

Cochabamba - Storia vera sulla privatizzazione dell'acqua ( http://it.youtube.com/user/nuovaitalia2008 )



Postato da: Vito

23 novembre 2008

Ciao, compagno Sandro



Ha fatto tutto:
il bambino partigiano,
il comunista,
il giornalista,
l'inventore di TV,
il direttore,
il sindacalista,
la lotta politica,
ha vissuto,
vissuto,
vissuto...


La vita di Sandro Curzi riassunta dal:
Corriere della Sera
Rai News 24
Wikipedia


Postato da: Vito

21 novembre 2008

Contro l'inquinamento!

Il Presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, l’Assessore regionale all’Ecologia, Michele Losappio, il responsabile scientifico di Legambiente, Stefano Ciafani, il giornalista Lino Patruno, il regista Pippo Mezzapesa, l’attore Alessandro Langiu, insieme ai Sud Sound System sabato 22 novembre, alle ore 18.00 presso la sala stampa della Presidenza (lungomare Nazario Sauro, 33) parteciperanno all’iniziativa pubblica per presentare il DDL finalizzato a stabilire i limiti di emissione di diossine e furani nella nostra Regione.Quando il reggae italiano non aveva ancora un suo linguaggio, ci hanno pensato i Sud Sound System a darglielo! Un successo che continua e un impegno che non è solo musicale, ma anche sociale e civile, come dimostra la campagna che i Sud Sound System hanno intrapreso in questi mesi. Il nuovo brano inedito “Dane calure”, in vendita esclusivamente come singolo digitale, è un vero inno alla vitalità della natura contro gli avvelenatori della nostra terra.In serata, alle ore 22, la reggae band salentina si esibisce al Demodè dal vivo, nel pieno della sua campagna contro l’inquinamento ambientale in Puglia.

19 novembre 2008

Abu Ghraib a Genova

Barbara Spinelli - La Stampa, 16/11/2008

Non è stato inutile il processo al massacro nella scuola Diaz, avvenuto il 21 luglio 2001 a Genova durante il vertice G8, così come non è stato inutile il processo alle violenze nella caserma di Bolzaneto. All’epoca si sostenne che non era accaduto nulla, che la polizia aveva agito normalmente contro i giovani inermi. Ora non lo si può dire più e alcuni colpevoli son stati condannati, anche se a pene lievi e forse destinate a esser cancellate da condoni e prescrizioni. Lo scandalo c’è stato, l’infamia fu consumata. Nel diritto italiano mancano le parole per dirlo, ma nel mondo questi comportamenti hanno un nome non controverso: si chiamano tortura, trattamenti inumani e degradanti. Il fatto che l’Italia non abbia ancora accolto il reato di tortura nel proprio ordinamento, 20 anni dopo aver ratificato la Convenzione Onu dell’84, non cambia la sostanza del delitto.

Nessuno nega ormai che a Bolzaneto e alla Diaz giovani donne e uomini furono spogliati, minacciati di stupro, pestati. Che a Bolzaneto un poliziotto spezzò la mano d’un ragazzo, divaricandogli le dita, e il ricucimento dell’arto avvenne in infermeria senza anestesia. Che gli studenti furono costretti a stare ore nella posizione del cigno, gambe allargate, braccia in alto, faccia al muro. Che donne con mestruazioni dovettero mostrare le perdite di sangue davanti agli sghignazzi delle forze dell’ordine. Che dovettero defecare davanti a poliziotti eccitati.

Queste cose son successe nel 2001 in Italia esattamente come - poco dopo - a Abu Ghraib. Quando succedono c’è un salto di qualità, si entra in una zona crepuscolare, altra. Si smette di dire «il crimine può accadere», è già accaduto.

Clausewitz, che studiò le guerre napoleoniche, scrisse nel 1832: «Una volta abbattute le barriere del possibile, che prima esistevano per così dire solo nell’inconscio, è estremamente difficile rialzarle». Si rivelò vero per il genocidio ebraico. È vero per le torture a Genova, a Abu Ghraib, a Guantanamo.

I massimi responsabili non hanno pagato, perché, dice la sentenza, mancavano le prove. Non c’era inoltre un «grande disegno», anche se il pubblico ministero Enrico Zucca sostiene di non aver mai menzionato disegni. Tuttavia i capi sono sempre responsabili quando un poliziotto loro subalterno commette delitti, senza necessariamente esser colpevoli. Questa responsabilità è occultata, anche se si dovrà leggere la sentenza per esserne sicuri. La guida della polizia era affidata allora a Gianni De Gennaro: sostituito nel 2007, poi capo gabinetto di Amato al Viminale, poi - con Berlusconi - promosso a supercommissario ai rifiuti di Napoli e a direttore del Cesis riformato (Dipartimento Informazioni per la Sicurezza). Il suo silenzio sul G8 pesa. Così come pesa lo stupido giubilo della destra. Non c’è niente da giubilare, quando le barriere del possibile precipitano. L’effetto del precipizio è squassante per lo Stato, la polizia, i cittadini. Tanto più oggi, che i giovani ricominciano l’impegno politico come i giovani lo ricominciarono dopo anni di apatia al vertice del G8 di Genova.

Il questore Vincenzo Canterini ha scritto una lettera ai suoi uomini, venerdì, in cui non pare consapevole di questa frana di prestigio e credibilità. Ex comandante del VII Nucleo mobile nei giorni del G8, condannato a 4 anni di reclusione dal Tribunale di Genova, parla con risentimento, annunciando che lui continuerà a portare il casco, non si sa bene per quale missione. È d’accordo con il proprio vice, Michelangelo Fournier, anch’egli condannato a due anni: alla Diaz avvenne una «macelleria messicana», dice a la Repubblica. Ma i suoi poliziotti non sono colpevoli; sono «martiri civili». La lettera è minacciosa: «Lasciamo tutte queste persone nei loro passamontagna e con i loro bastoni, diamogli l’illusione di avere vinto, e facciamogli vedere che alla lunga saremo noi a vincere». Rimettiamoci il casco, incita. Visto che di lettere si parla, vale la pena citare una lettera che fece storia, nel ’68 francese, quando le violenze furono più gravi e lunghe che a Genova. È il messaggio inviato da Maurice Grimaud, prefetto di Parigi, ai propri subordinati. Grimaud ebbe un comportamento decisivo: oggi gli storici concordano sul fatto che senza di lui, il ’68 sarebbe finito in bagno di sangue, generando terroristi di tipo tedesco o italiano. Invece, nulla. Grimaud cercò di capire le dimensioni profonde e mondiali del movimento, invitando i poliziotti, il reticente ministro dell’Interno Fouchet e lo stesso De Gaulle a tenerne conto (intervista di Grimaud a Liaison, giornale della prefettura, 4-08). Capì che insidiati erano l’onore e dunque l’affidabilità delle forze dell’ordine, dei funzionari pubblici, infine dello Stato. Sentendo che nei commissariati serpeggiava odio (c’era stata la guerra d’Algeria) prese la penna, il 29 maggio ’68, e scrisse un messaggio personale a circa 20 mila poliziotti.

È una lettera che andrebbe letta alle forze dell’ordine e nelle università, non solo in Francia. In apertura Grimaud invita a discutere il tema, cruciale ma schivato, dell’eccesso nell’impiego della violenza: «Se non ci spieghiamo molto chiaramente e molto francamente su questo punto, vinceremo forse la battaglia della strada ma perderemo qualcosa di assai più prezioso, cui voi tenete come me: la nostra reputazione». Grimaud non nega che la polizia è ingiustamente umiliata dagli studenti, ma il suo linguaggio e il suo ordine sono inequivocabili: «Colpire un manifestante caduto a terra è colpire se stessi, e apparire in una luce che intacca l’intera funzione poliziesca. Ancor più grave è colpire i manifestanti dopo l’arresto e quando sono condotti nei locali di polizia per essere interrogati. (...) Sia chiaro a tutti e ripetetelo attorno a voi: ogni volta che viene commessa una violenza illegittima contro un manifestante, decine di manifestanti desidereranno vendicarsi. L’escalation è senza limiti». Comunque il prefetto si dichiara corresponsabile, qualsiasi cosa avvenga: «Nell’esercizio delle responsabilità, non mi separerò dalla polizia». L’autocontrollo è un dovere del servitore dello Stato: «Quando date la prova del vostro sangue freddo e del vostro coraggio, coloro che vi stanno davanti saranno obbligati ad ammirarvi anche quando non lo diranno».

Esiste dunque la possibilità di servire lo Stato senza infangarsi. Per la coscienza dei francesi l’esempio Grimaud conta e spiega forse, senza giustificarle, certe reticenze a estradare nostri ex terroristi. Anche in Italia esistono esempi simili, di servizio dello Stato e non della contingenza politica. Il prefetto di Roma Carlo Mosca era uno di questi. Ragionando come Grimaud, egli difese i Rom («Io non prendo le impronte a bambini») e poco dopo il diritto studentesco a manifestare. Nonostante buoni risultati (censimento degli insediamenti Rom; calo dei reati a Roma dal gennaio 2008; violenza degli stadi circoscritta) Berlusconi lo ha silurato, lo stesso giorno del verdetto di Genova.

Quando cade la barriera del possibile il crimine si ripete. I vigili di Parma che hanno sfregiato il giovane originario del Ghana, Emmanuel Bonsu Foster, lo testimoniano (che sia un immigrato regolare è irrilevante, è turpitudine anche con gli irregolari). Lo testimonia la prostituta nigeriana scaraventata in manette sul pavimento d’un commissariato, a Parma in agosto. A Genova hanno condannato i manovali (le «mele marce» di Bush) e due capi, Canterini e Fournier. Non basta: né per rialzare le barriere, né per correggere e riabilitare la polizia. Lo storico Marco Revelli, l’ex Presidente della Corte costituzionale Valerio Onida, il giornalisti Giuseppe D’Avanzo e Riccardo Barenghi hanno detto l’essenziale, su come la democrazia esca sfigurata da simili prove. Solo i cinici e i rassegnati immaginano che sia troppo tardi per cominciare a far bene le cose.

Postato da: Vito

14 novembre 2008

VERGOGNA!

Nel nostro "Belpaese" è leggittimo pestare qualcuno per motivi "politici e/o di ordine pubblico", questo è stato stabilito ieri dal Tribunale di Genova.
Ma andiamo con ordine e ricapitoliamo i fatti:
nel 2001 durante il G8 svoltosi a Genova, alcuni ragazzi che erano li per manifestare PACIFICAMENTE contro l'egemonia delle multinazionali sulla vita delle persone e, che, dormivano nella scuola "Diaz" all' occasione trasformata in alloggio anche logistico per i manifestanti, sono stati brutalmente pestati nel sonno da agenti di Polizia che non paghi hanno distrutto tutti i materiali audiovisivi in posesso dei ragazzi e, ciliegina sulla torta, hanno continuato le violenze fisiche nella caserma di Bolzaneto sui manifestanti che erano riusciti a portarsi via in seguito al blitz nella scuola.
Purtroppo (per loro) gli agenti non hanno considerato che viviamo nell' epoca dei grandi fratelli e così, video amatoriale dopo video amatoriale, intercettazione dopo intercettazione, denuncia dopo denuncia si è arrivati a istruire un processo contro i responsabili della mattanza.
E qui sono cominciate le farse, infatti, sono solo in 29 compresi i vertici quelli rinviati in giudizio
e ieri si è compiuta la vergogna: assolti in 16 e condannati in 13 per un totale di 35 anni di carcere.
Qualcuno, in pratica, ci vuol far credere che in un battaglione di Polizia solo in 29, probabilmente, hanno menato le mani e di questi solo in 13 lo hanno fatto per davvero.
E gli altri? Guardavano inermi? In tal caso dovrebbero essere altrettanto colpevoli quanto i macellai, perchè in qualità di agente di P.S. non sono intervenuti davanti ad un evidente violazione dei diritti civili di cui dovrebbe godere un cittadino.
E poi veramente in 13 hanno pestato centinaia di ragazzi? E chi sono questi la reincarnazione dei 300 spartani che da soli hanno sbaragliato un esercito immenso nella famosa battaglia delle Temopili?
In realtà questa sentenza/farsa vuole dire di più, vuole dire :"ragazzi non manifestate e se proprio dovete farlo sappiate che vi può succedere qualcosa di sgradevole e che, sopratutto, chi vi procura queste "sgradevolezze" 90 su 100 rimarrà impunito.
Come i poliziotti di Genova.
Come i fascisti di piazza Navona.
Come gli assassini di Carlo Giuliani e Giogiana Masi.
Ancora una volta ingiustizia è fatta.
W l'Italia, W la democrazia.

12 novembre 2008

Bari, in cinquemila "sognano" l'Amgas

Roberto Calpista - La Gazzetta del Mezzogiorno, 12/11/2008

BARI - Il miraggio del posto fisso si materializza nel cortile dell’Angiulli. Seguire le frecce per il «concorso Amgas». Mettersi in coda e incrociare le dita. Incrociarle bene, perché per quindici posti in palio, si sono candidati in cinquemila.

Il sogno scaccia «vita da precario» dello stipendio basso ma assicurato racconta di undici «mansioni» part time e quattro «full» all’ex municipalizzata per la distribuzione del metano. E con l’interrogativo che, rassicurazioni a parte, sempre incombe sui concorsi pubblici.

Ci sono i bamboccioni di Padoa Schioppa memoria. Ci sono i 40-50enni rientrati, meglio che tentano il rientro nel mondo del lavoro dopo l’esperienza della cig e della mobilità. Ci sono gli studenti che tentano la qualifica del lavoratore per tirare avanti sui libri.

Ci sono le amiche, Lucia Canale, Loredana e Angela Caccavale, Anna Dispoto, Maria Pia De Marzo. Ognuna con le proprie storie, le vittorie, le delusioni, le speranze. Stipendio basso, ma di questi tempi può anche bastare avere una busta paga a fine mese per tirare avanti un altro po’.

Sogni ma poche illusioni. Test a parte è forse più facile azzeccare un superenalotto che passare una di queste lotterie.

Nico Alessandro, 29 anni, maturità classica e studi universitari in Giurisprudenza. Disoccupato. Anzi, un veterano dei quiz con il mondo del lavoro: «Vivo in famiglia, prospettive non ce ne sono, continuo a presentarmi ai concorsi».

All’Angiulli, il luogo scelto dalla srl Centro servizi di Matera - la società che si sta occupando delle selezioni - fanno entrare per gruppi nel palestrone. In coda quindi e per fortuna che il clima è clemente e rinfresca. Dopo Nico, Anna Castro, 23, maturità scientifica, una laurea specialistica triennale in psicologia e attualmente iscritta alla specialistica. Disoccupata. «In realta non mi pongo questo obiettivo, ma ci provo. Cerco una sicurezza economica che al momento non ho per continuare gli studi». La proposta? Perché non tentare in altre città, in altri Paesi? «Per lo studio no, va bene Bari. Per lavoro invece sì, almeno se ci sono opportunità interessanti».

Gioacchino Dell’Aquila, 21 anni, terlizzese, diplomato, studente alla facoltà di Agraria corso in tecnologia alimentare. Cameriere nel, poco, tempo libero per racimolare qualcosa e un sogno davvero grande: «Entrare nel nucleo antisofisticazioni, il Nas dei carabinieri». E che ci fa allora qui? «La situazione al Sud è nera». Una schiera di amici precari, senza soldi, né più, in alcuni casi, speranze.

Vive invece con 550 euro al mese Angelo Anselmi, ex dipendente delle Ccr, da 6 anni in mobilità più altri due di cassa integrazione. Ha 47 anni e arriva da Ruvo, troppo giovane per stare a casa. Ha una figlia di dieci anni: «Le ho detto della situazione economica difficile che sta attraversando la famiglia, ha compreso benissimo e i sacrifici non le pesano più» . Anche Angelo è un veterano dei concorsi pubblici, ma lui di illusioni - lo ammette - ormai non se ne fa più.

Postato da: Vito

7 novembre 2008

Nasce oggi l’associazione Per la Sinistra

Le ragazze e i ragazzi che in questi giorni portano la loro protesta in tutte le piazze del paese per una scuola che li aiuti a crearsi un futuro ci dicono che la speranza di un’altra Italia è possibile. Che è possibile reagire alla destra che toglie diritti e aumenta privilegi. Che è possibile rispondere all’insulto criminale che insanguina il Mezzogiorno e vuole ridurre al silenzio le coscienze più libere. Che è possibile dare dignità al lavoro, spezzando la logica dominante che oggi lo relega sempre più a profitto e mercificazione. Che è possibile affermare la libertà delle donne e vivere in un paese ove la laicità sia un principio inviolabile. Che è possibile lavorare per un mondo di pace. Che è possibile, di fronte all’offensiva razzista nei confronti dei migranti, rispondere - come fece Einstein - che l’unica razza che conosciamo è quella umana. Che è possibile attraverso una riconversione ecologica dell’economia contrastare i cambiamenti climatici, riducendone gli effetti ambientali e sociali. Che è possibile, dunque, reagire ad una politica miserabile la quale, di fronte alla drammatica questione del surriscaldamento del pianeta, cerca di bloccare le scelte dell’Europa in nome di una cieca salvaguardia di ristretti interessi.Cambiare questo paese è possibile. A patto di praticare questa speranza che oggi cresce d’intensità, di farla incontrare con una politica che sappia anche cambiare se stessa per tradurre la speranza di oggi in realtà. E’ questo il compito primario di ciò che chiamiamo sinistra.Viviamo in un paese e in un tempo che hanno bisogno di un ritrovato impegno e di una nuova sinistra, ecologista, solidale e pacifista. La cronaca quotidiana dei fatti è ormai una narrazione impietosa dell’Italia e della crisi delle politiche neoliberiste su scala mondiale. Quando la condizione sociale e materiale di tanta parte della popolazione precipita verso il rischio di togliere ogni significato alla parola futuro; quando cittadinanza, convivenza, riconoscimento dell’altro diventano valori sempre più marginali; quando le donne e gli uomini di questo paese vedono crescere la propria solitudine di fronte alle istituzioni, nei luoghi di lavoro - spesso precario, talvolta assente - come in quelli del sapere; quando tutto questo accade nessuna coscienza civile può star ferma ad aspettare. Siamo di fronte ad una crisi che segna un vero spartiacque. Crollano i dogmi del pensiero unico che hanno alimentato le forme del capitalismo di questi ultimi 20 anni. Questa crisi rende più che mai attuale il bisogno di sinistra, se essa sarà in grado di farsi portatrice di una vera alternativa di società a livello globale.E’ alla politica che tocca il compito, qui ed ora, di produrre un’idea, un progetto di società, un nuovo senso da attribuire alle nostre parole. Ed è la politica che ha il compito di dire che un’alternativa allo stato presente delle cose è necessaria ed è possibile. La destra orienta la sua pesante azione di governo - tutto è già ben chiaro in soli pochi mesi - sulla base di un’agenda che ha nell’esaltazione persino esasperata del mercato e nello smantellamento della nostra Costituzione repubblicana i capisaldi che la ispirano. Cosa saranno scuola e formazione, ambiente, sanità e welfare, livelli di reddito e qualità del lavoro, diritti di cittadinanza e autodeterminazione di donne e uomini nell’Italia di domani, quel domani che è già dietro l’angolo, quando gli effetti di questa destra ora al governo risulteranno dirompenti e colpiranno dritto al cuore le condizioni di vita, già ora così difficili, di tante donne e uomini?E’ da qui che nasce l’urgenza e lo spazio - vero, reale, possibile, crescente - di una nuova sinistra che susciti speranza e chiami all’impegno politico, che lavori ad un progetto per il paese e sappia mobilitare anche chi è deluso, distratto, distante. Una sinistra che rifiuti il rifugio identitario fine a sé stesso, la fuga dalla politica, l’affannosa ricerca dei segni del passato come nuovi feticci da agitare verso il presente. Una sinistra che assuma la sconfitta di aprile come un momento di verità, non solo di debolezza. E che dalle ragioni profonde di quella sconfitta vuole ripartire, senza ripercorrerne gli errori, le presunzioni, i limiti. Una sinistra che guardi all’Europa come luogo fondamentale del proprio agire e di costruzione di un’alternativa a questa globalizzazione. Una sinistra del lavoro capace di mostrare come la sua sistematica svalorizzazione sia parte decisiva della crisi economica e sociale che viviamo.Per far ciò pensiamo a una sinistra che riesca finalmente a mescolare i segni e i semi di più culture politiche per farne un linguaggio diverso, un diverso sguardo sulle cose di questo tempo e di questo mondo. Una politica della pace, non solo come ripudio della guerra, anche come quotidiana costruzione della cultura della non violenza e della cooperazione come alternativa alla competizione. Una sinistra dei diritti civili, delle libertà, dell’uguaglianza e delle differenze. Una sinistra che non sia più ceto politico ma luogo di partecipazione, di ricerca, di responsabilità condivise. Che sappia raccogliere la militanza civile, intellettuale e politica superando i naturali recinti dei soggetti politici tradizionali. E che si faccia carico di un’opposizione rigorosa, con l’impegno di costruire un nuovo, positivo campo di forze e di idee per il paese. La difesa del contratto nazionale di lavoro, che imprese e governo vogliono abolire per rendere più diseguali e soli i lavoratori e le lavoratrici è per noi l’immediata priorità, insieme all’affermazione del valore pubblico e universale della scuola e dell’università e alla difesa del clima che richiede una vera e propria rivoluzione ecologica nel modo di produrre e consumare.Lavorare da subito ad una fase costituente della sinistra italiana significa anche spezzare una condizione di marginalità - politica e persino democratica - e scongiurare la deriva bipartitista, avviando una riforma delle pratiche politiche novecentesche.L’obiettivo è quello di lavorare a un nuovo soggetto politico della sinistra italiana attraverso un processo che deve avere concreti elementi di novità: non la sommatoria di ceti politici ma un percorso democratico, partecipativo, inclusivo. Per operare da subito promuoviamo l’associazione politica “Per la Sinistra”, uno strumento leggero per tutti coloro che sono interessati a ridare voce, ruolo e progetto alla sinistra italiana, avviando adesioni larghe e plurali.Fin da ora si formino nei territori comitati promotori provvisori, aperti a tutti coloro che sono interessati al processo costituente , con il compito di partecipare alla realizzazione, sabato 13 dicembre, di una assemblea nazionale. Punto di partenza di un processo da sottoporre a gennaio a una consultazione di massa attorno a una carta d’intenti, un nome, un simbolo, regole condivise. Proponiamo di arrivare all’assemblea del 13 dicembre attraverso un calendario di iniziative che ci veda impegnati, già da novembre, a costruire un appuntamento nazionale sulla scuola e campagne sui temi del lavoro e dei diritti negati, dell’ambiente e contro il nucleare civile e militare e per lo sviluppo delle energie rinnovabili.Sappiamo bene che non sarà un percorso semplice né breve, che richiederà tempo, quel tempo che è il luogo vero dove si sviluppa la ricerca di altri linguaggi, la produzione di nuova cultura politica, la formazione di nuove classi dirigenti. Una sinistra che sia forza autonoma - sul piano culturale, politico, organizzativo - non può prescindere da ciò. Ma il tempo di domani è già qui ed è oggi che dobbiamo cominciare a misurarlo. Ecco perché diciamo che questo nostro incontro segna, per noi che vi abbiamo preso parte, la comune volontà di un’assunzione individuale e collettiva di responsabilità. La responsabilità di partecipare a un percorso che finalmente prende avvio e di voler contribuire ad estenderlo nelle diverse realtà del territorio, di sottoporlo ad una verifica larga, di svilupparlo lavorando sui temi più sensibili che riguardano tanta parte della popolazione e ai quali legare un progetto politico della sinistra italiana, a cominciare dalla pace, dall’equità sociale e dal lavoro, dai diritti e dall’ambiente alla laicità.Noi ci impegniamo oggi in questo cammino. A costruirlo nel tempo che sarà richiesto. A cominciare ora.
Vincenzo Aita, Ritanna Armeni, Alberto Asor Rosa, Angela Azzaro, Fulvia Bandoli, Giovanni Berlinguer, Piero Bevilacqua, Jean Bilongo, Maria Luisa Boccia, Luca Bonaccorsi, Sergio Brenna, Luisa Calimani, Antonio Cantaro, Luciana Castellina, Giusto Catania, Paolo Cento, Giuseppe Chiarante, Raffaella Chiodo, Marcello Cini, Lisa Clark, Maria Rosa Cutrufelli, Pippo Del Bono, Vezio De Lucia, Paolo De Nardis, Loredana De Petris, Elettra Deiana, Arturo Di Corinto, Titti Di Salvo, Walter Fabiocchi, Daniele Farina, Claudio Fava, Carlo Flamigni, Pietro Folena, Enrico Fontana, Marco Fumagalli, Luciano Gallino, Giuliano Giuliani, Umberto Guidoni, Margherita Hack, Paolo Hutter, Francesco Indovina, Rosa Jijon, Francesca Koch, Wilma Labate, Simonetta Lombardo, Francesco Martone, Graziella Mascia, Gianni Mattioli, Danielle Mazzonis, Gennaro Migliore, Adalberto Minucci, Filippo Miraglia, Serafino Murri, Roberto Musacchio, Pasqualina Napoletano, Paolo Naso, Diego Novelli, Moni Ovadia, Italo Palumbo, Giorgio Parisi, Elisabetta Piccolotti, Paolo Pietrangeli, Bianca Pomeranzi, Alessandro Portelli, Alì Rashid, Luca Robotti, Massimo Roccella, Stefano Ruffo, Mario Sai, Simonetta Salacone, Massimo L. Salvadori, Edoardo Salzano, Bia Sarasini, Scipione Semeraro, Patrizia Sentinelli, Massimo Serafini, Giuliana Sgrena, Aldo Tortorella, Gabriele Trama, Mario Tronti, Nichi Vendola…
Roma, 7 novembre 2008
postato da Norberto

5 novembre 2008

Miroglio, il 27 ottobre 2008 ha comunicato ufficialmente la chiusura dello stabilimento Filatura e Tessitura di Puglia Srl di Ginosa (TA).


Il 27/10/2008 è stata avviata dal gruppo MIROGLIO SpA la procedura di licenziamento e mobilità per 233 dipendenti della Filatura e Tessitura di Puglia Srl di Ginosa (TA).
Nonostante si siano mossi politici di ogni schieramento, sindacati, giornali e quant’altro potesse cercare di far cambiare idea all’amministratore delegato del Gruppo Miroglio, il C.d.a. ha deciso comunque di chiudere lo stabilimento pugliese, adducendo la motivazione della crisi del settore tessile e quindi tale azione è sostenuta dai dati di produzione degli ultimi 3 anni che indicano (secondo il Gruppo) un decrescendo del fatturato, tale da non poter mantenere ancora in produzione lo stabilimento di Ginosa.
Con la procedura di mobilità avviata, ci sono esattamente 75 giorni dalla data (dovrebbe essere lo stesso 27/10/08) del versamento effettuato dalla Filatura e Tessitura di Puglia Srl nelle casse dell’INPS, affinché si possa ancora raggiungere un accordo sindacale sugli ammortizzatori sociali per i dipendenti.
Sembra infatti, che i Sindacati all’unisono abbiano deciso di non firmare la chiusura, quindi la relativa Cassa Integrazione. Ma ora con l’avvio di questa procedura i sindacati in 75 giorni devono necessariamente firmare, cercando di raggiungere il miglior accordo possibile per i lavoratori con il Gruppo, per far godere anche a questi 233 lavoratori i benefici di cui hanno già goduto gli altri 120 circa lavoratori fuoriusciti dall’azienda dal 2004 ad oggi, e cioè una somma una tantum come “benefit d’uscita”, la cassa integrazione e la poi successiva e obbligata iscrizione nelle liste di Mobilità.
Io, sono sempre stato sensibile ed attento agli ultimi sviluppi della vertenza Miroglio, in quanto mi sento ancora legato a quell’azienda, a quelle persone ed a quegli amici con cui ho condiviso 5 anni della mia vita lavorativa e non solo.
Sono entrato in quell’azienda nell’ormai lontano 1 settembre 1999, inquadrato come operaio di 1°liv. con contratto di formazione e lavoro a tempo determinato per 24 mesi, collocato nel laboratorio chimico-fisico; dopo i 2 anni di formazione e la conferma del contratto, da operaio 1°liv. a tempo determinato, a operaio di 2° livello con contratto a tempo indeterminato, non avendo più pressioni sul contratto che potevano non rinnovarmi, mi sono iscritto al sindacato che secondo me in quel momento rispecchiava di più i miei ideali di lavoro, la CGIL.
Già dal 1999 si paventava un aria di crisi nel tessile mondiale, nel 2001, si cominciano a chiudere i primi rubinetti da cui sgorgavano i finanziamenti statali per Miroglio, e guarda caso la crisi nel tessile si accentua ancora e si sente l’invasione nei mercati dei cinesi e dei paesi dell’est, mentre nel frattempo la Ns. azienda ospita periodicamente cinesi con le loro belle macchinette fotografiche, bulgari e tunisini per corsi di aggiornamento e formazione. Intanto il Gruppo Miroglio decide di investire in aziende nuove in Cina e Bulgaria. Sempre nel 2001, mi sono presentato alle elezioni sindacali per R.S.U. di fabbrica nelle liste della CGIL; terzo degli eletti, mi sono subito prodigato ad aggiornarmi in merito alla legislazione ed alle regole sindacali ed aziendali. Nel 2004 vengono definitivamente chiusi rubinetti che apportavano “manna” nelle casse del Gruppo, ed ecco che c’è la prima vera e propria crisi aziendale… siamo stati pochi a lottare per avere quello che veramente ci spettava, mentre altri si accordavano sottobanco… nel luglio 2004 per motivi strettamente famigliari e personali, ho deciso di abbandonare la lotta e l’azienda sono andato via, con 15.000 € di incentivo per il licenziamento, un anno di cassa integrazione e due anni di mobilità;
Oggi nel 2008 Miroglio ha completamente sciolto gli ultimi vincoli che tenevano legata questa azienda al Ns. territorio, ed ecco l’ultima carta da giocare… chiusura!!! 233 persone vanno a casa… a quali condizioni???
L’età media degli operai è di 40 anni circa con famiglia e figli a carico…
A quali condizioni questi ragazzi e ragazze vanno definitivamente a casa??? I più, hanno un mutuo da pagare, una famiglia da mantenere… a 40 anni circa… cosa faranno???
Tutto questo non è qualcosa che si rifletterà solo sugli ex dipendenti Miroglio e sulle loro famiglie, ma tutta la Ns. comunità ne risentirà… ce ne accorgeremo tra 2 o 3 anni… chi non guadagna non spende, e tutta la Ns. economia locale ne risentirà…
Ci sarebbe ancora tanto da dire sul Gruppo Miroglio e soprattutto dei dirigenti locali dell’azienda di Ginosa… ma questa è un’altra storia, legata ma comunque un’altra storia che racconterò probabilmente in un prossimo post.
Personalmente sono e sarò sempre vicino agli amici ed ex colleghi della Filatura e Tessitura di Puglia, e posso sicuramente estendere la mia disponibilità alla disponibilità della Segreteria Provinciale di Taranto ed al Comitato Provinciale Federale del Partito della Rifondazione Comunista di cui faccio parte, a tutte le iniziative che i lavoratori intenderanno intraprendere in questa ennesima battaglia contro il Padrone Ladrone di nome MIROGLIO.

Gabriele Cellamaro

4 novembre 2008

Facciamo ipotesi......

"Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.

Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito?

Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito.

Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Cos" la scuola privata diventa una scuola privilegiata.

Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.

Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: (1) ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. (2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. (3) Dare alle scuole private denaro pubblico.

Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico!"
(Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950)

Qui il discorso completo

Postato da: Vito